Nel corso di questi anni in molti mi hanno chiesto perché mi appassioni così tanto lavorare con gli adolescenti in situazioni di estrema fragilità psichica. A dire la verità, in qualche momento me lo sono chiesta anche io. Ragazzi che portano negli occhi una sofferenza estrema, che si chiedono (e mi chiedono) se valga la pena continuare a vivere. Ragazze che si travestono da fantasmi rinunciando al loro corpo, giovani che si ritirano dalla scena sociale e non escono dalla loro stanza se non forse, quando va bene, per venire da me. Braccia, gambe, pance tagliate, bruciate da sigarette, graffiate, malamente medicate. Urla disperate senza parole di ragazzi che mi chiedono di sostenere tutto questo insieme a loro per non farli cadere, di tenere forte e saldo l’altro capo della fune anche se lo strattoneranno con tutta la forza di cui sono capaci, facendomi sobbalzare e spesso sentire un forte contraccolpo.
Nonostante il dolore e la fatica che tutto ciò comporta, ad oggi non ho mai smesso di pensare che questo sia esattamente il lavoro che amo fare, quello in cui trovo più senso. Ci sono tanti motivi che mi spingono a pensarlo, ma credo che il principale derivi dall’emozione che proviamo vedendo ragazze e ragazzi spezzati che riescono a trovare il coraggio e l’energia per rimettere insieme tutti i pezzi, spesso in modi nuovi, originali, creativi e vitali. Uso il plurale volutamente, perché l’aspetto che trovo più caratteristico e necessario del lavoro con gli adolescenti “gravi” (che poi non ho mai capito bene cosa significhi questo “gravi” che spesso usiamo noi addetti ai lavori) è rappresentato dal fatto che si tratta di un lavoro di squadra, multidisciplinare e integrato. Io credo che debba indispensabilmente essere così perché sia possibile davvero muovere le cose e non cadere nella frammentazione che i nostri pazienti sperimentano e vivono dentro di loro.
E’ proprio in questa direzione che va il progetto SafeTEEN, attivato a partire da Gennaio 2024 presso l’Ambulatorio Adolescenti della Struttura Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda grazie al finanziamento ricevuto dall’associazione C’è da Fare ETS.
I destinatari del progetto sono adolescenti di età compresa tra i 13 e i 17 anni residenti nella zona di competenza territoriale dell’Ospedale Niguarda e afferenti ai servizi di NPIA che presentino problematiche psichiatriche riconducibili a varie forme di attacco al sé corporeo o di grave ritiro sociale. Al progetto accedono attualmente dieci ragazzi che, indipendentemente dalla diagnosi, presentano sintomi di vario genere tra cui:
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agiti autolesivi (ad es. self-cutting) che abbiano o meno determinato accessi in PS o ricoveri;
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ideazione anticonservativa, tentati o mancati suicidi;
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grave ritiro sociale (ragazzi isolati, non in grado di frequentare la scuola o altri punti aggregativi, hikikomori).
L’obiettivo principale del progetto è la tempestiva e intensiva presa in carico dell’adolescente e della famiglia, evitando liste d’attesa che spesso acuiscono le manifestazioni di sofferenza: SafeTEEN vuole essere un luogo in cui il disagio viene rapidamente accolto e valutato con attenzione al fine di elaborare percorsi terapeutici personalizzati che possano sostenere i ragazzi e le famiglie.
I pazienti coinvolti nel progetto hanno la possibilità di effettuare, a seconda delle necessità, diversi accessi settimanali (da tre a cinque) che prevedono colloquio neuropsichiatrico con eventuale prescrizione e monitoraggio della terapia farmacologica, psicoterapia familiare, psicoterapia individuale, sostegno educativo individuale, gruppo psico-educativo e riabilitativo e, in alcune situazioni di grave ritiro, intervento educativo domiciliare.
Una grande cura viene dedicata alla costruzione e integrazione del lavoro di équipe da parte del coordinatore di progetto, la cui presenza stabile in ambulatorio garantisce un ponte sicuro e il necessario collante tra i vari interventi e pensieri dei membri della squadra. Il lavoro del gruppo e il gruppo di lavoro sono aspetti fondanti e fondamentali per la riuscita dei percorsi che avviamo, aspetti tanto complessi quanto arricchenti e preziosi prima per noi che per i pazienti con cui lavoriamo. Il neuropsichiatra supporta i ragazzi con il sostegno farmacologico, talvolta indispensabile, e ancor più con la solida presenza medica cui fare riferimento ogni volta che la potenza della sintomatologia non rende possibile la ripresa dei compiti evolutivi o durante momenti di urgenza e acuzie. Il tecnico della riabilitazione psichiatrica (TeRP) accompagna i ragazzi a pensare insieme alla graduale ripresa di una dimensione possibile e accessibile del “fare”, che diventa necessariamente un fare insieme, mano nella mano. Che questo significhi studiare, disegnare, cucinare, truccarsi. L’intervento del TeRP permette ai pazienti di essere accompagnati nel muovere i primi passi avanti, di alzare lo sguardo e guardare cosa c’è più in là, condizione necessaria perché, attraverso il contemporaneo lavoro con lo psicoterapeuta individuale, possano iniziare a trovare il coraggio di guardare anche indietro senza essere travolti da uno tsunami emotivo. In questo senso, psicoterapeuta individuale e TeRP lavorano in un mutuo scambio. Non potrei accompagnare i ragazzi a guardare e iniziare a elaborare i fantasmi del loro passato se non ci fosse qualcuno che, con delicatezza, li aiuta a volgere lo sguardo anche avanti e immaginare la concretezza di un futuro possibile; d’altra parte i ragazzi non potrebbero muovere passi avanti se non accompagnati dalla psicoterapia individuale a guardare e ripensare ciò che c’è dietro le loro spalle, i demoni che hanno popolato le loro menti e le sofferenze che li hanno portati da lì a qui. Niente di questo sarebbe però possibile senza il prezioso lavoro dello psicoterapeuta familiare che accoglie le famiglie che arrivano spesso intimorite nel suo studio con le gambe con cui camminano nel mondo, con i loro malfunzionamenti e le fragilità e, con grande pazienza e quello che definirei un lavoro di fino, le supporta a potenziare quelle gambe perché possano sostenere il peso della fatica, ma anche e soprattutto quello della speranza. Spesso immagino il lavoro della collega familiare con cui collaboro come un processo che accompagna con grande delicatezza tutte le persone vicine ai ragazzi a poterli vedere con occhi nuovi e quindi cambiare posizione rispetto a loro: se prima sono davanti, intorno, a destra e a sinistra e si muovono in maniera scomposta, allarmata, disattenta o affaticata, accompagnati dal lavoro familiare genitori, fratelli, zii, nonni riescono a spostarsi appena dietro ai ragazzi, facendo sentire la loro presenza senza ostacolarne il cammino, ma anzi accompagnandolo con discrezione e forza.
Ecco che il lavoro di tutta la squadra diventa necessario perché ragazzi interrotti possano, insieme alle loro famiglie, riprendere il cammino nella direzione evolutiva. Nella mia fantasia penso a una metafora musicale in cui il lavoro di ogni membro dell’équipe è un suono e, come succede nelle orchestre, mentre l’orchestra è impegnata nel compito del “fare musica”, la musica stessa fa l’orchestra: i suoni del gruppo creano e arricchiscono l’esperienza del gruppo stesso. Penso alle dinamiche fughe bachiane del Clavicembalo Ben Temperato che stanno a significare l’esito della strabiliante inventiva di Bach su uno stesso soggetto, passando dalle figure più semplici a quelle più complesse. Si tratta di un gioco polifonico estremamente complicato che all’ascolto risulta magico: ogni nota è al suo posto ma assume significato solo se ascoltata insieme alle altre. Il lavoro multidisciplinare integrato con gli adolescenti e le loro famiglie è composto da un groviglio di voci che si rincorrono, si ascoltano e si seguono. Voci certamente meno “ordinate” di quelle delle fughe di Bach, ma che stanno insieme con una modalità analoga ad esse: talvolta proponendo richiami ed echi melodici, altre volte introducendo controcanti apparentemente agli antipodi, sperimentando incastri, simmetrie, asimmetrie capaci di generare un insieme armonico. Certo, questa armonia ha un costo non indifferente per l’équipe: è necessario che ciascuno sappia mettersi nella disposizione di tollerare che quel paziente con cui tanto lavora e per cui faticosamente si spende non è il suo paziente. È altresì necessario che, all’interno del team, ci si impegni a trovare un canale di comunicazione funzionale, costante e spesso tempestivo, con l’accortezza di ragionare ogni volta su cosa è bene condividere, tra chi, e in quale modalità. E’ insomma un lavoro certosino che va molto oltre i 45 minuti di seduta con il ragazzo, ma a mio avviso è l’unico che possa realmente restituire a questi pazienti e alle loro famiglie la possibilità di un movimento trasformativo.
Nella nostra équipe l’integrazione e l’importanza data ai singoli pezzi di storia raccolti da ciascun operatore, oltre che ai singoli pezzi di storia personale e professionale di ogni operatore, contribuiscono a sostenere i pazienti e le famiglie nel poter tenere insieme i vari aspetti che li compongono, spesso ambivalenti, contrastanti e in conflitto uno con l’altro, ma tutti caratterizzanti la complessità della persona e del nucleo familiare. Il lavoro di équipe con i colleghi del progetto è senz’altro utile per favorire un senso condiviso di responsabilità del caso in tutti noi operatori, ma è soprattutto importante in quanto in grado di restituire una nuova integrità, interezza e vitalità al paziente che va ben oltre lo spesso ampio e variegato corteo sintomatologico che lo abita. Pensando a questo, mi viene da tornare alla polifonia delle sopra menzionate fughe bachiane, polifonia che insieme ai colleghi aiutiamo i pazienti a ricostruire: ogni voce del ragazzo e dei suoi familiari propone suoni differenti, controcanti, richiami, ma solo tutte le voci ascoltate nella loro interezza conferiscono la necessaria tridimensionalità all’ascolto.
Ciò che in prima battuta stiamo osservando in questi mesi è che i luoghi e le persone coinvolte nel progetto diventano per il ragazzo e la sua famiglia un porto sicuro, che gradualmente dovrà potersi definire come spazio della mente cui poter accedere nei momenti faticosi. I nostri ragazzi sanno che, al di là degli appuntamenti fissati, in ambulatorio troveranno sempre qualcuno che li conosce e può accoglierli, così come sanno che terapeuti, TeRP, coordinatore e medico si parlano tra loro e sono aggiornati sull’evoluzione della loro situazione. Una delle ragazze del progetto, che effettua ogni settimana quattro o cinque accessi, ha definito l’ambulatorio “la casa delle mie emozioni”. Mi rendo conto che in effetti è proprio così. Anche quando le emozioni sono faticose e non è facile guardarle, come succede quando i ragazzi fanno fatica a essere presenti agli appuntamenti. In queste situazioni capita spesso che arrivino chiedendo di non entrare in studio, non parlare, non affrontare. E puntualmente, ogni volta, entrano, parlano, affrontano. Dal mio vertice ho infatti finora osservato, nel complesso, una matura e responsabile partecipazione al progetto da parte di tutti i ragazzi e delle loro famiglie, con le gambe che hanno come dicevo, ma anche con molta fiducia di poterle gradualmente utilizzare per andare sempre un po’ più in là. Aderire al nostro progetto è per i ragazzi un vero e proprio compito intensivo che impegna, oltre che molto tempo della loro settimana, grande parte dello spazio mentale e delle loro energie. Molte volte si rende necessario spiegare questo agli operatori scolastici cosicché possano capire i motivi per cui, in diverse situazioni, per i ragazzi non è possibile in una prima fase del lavoro garantire la frequenza scolastica e l’investimento nello studio. Venire in ambulatorio è per loro rassicurante ma anche molto faticoso, perché faticoso è affrontare i demoni che abitano le loro menti. Più volte mi sono trovata a chiedermi come ragazzi così spezzati possano riuscire a “tenere” un percorso del genere, e così anche i loro genitori. Credo che la risposta risieda in gran parte nel fatto che non sono solo loro a tenere, ma siamo tutti noi, insieme. Una presa in carico intensiva, multidisciplinare e realmente integrata rappresenta un contenitore solido e flessibile al tempo stesso. Solido quanto le mura dell’ambulatorio che accoglie i ragazzi e quanto lo spazio nella mente degli operatori. Flessibile perché deve adattarsi alle possibilità e ai bisogni del paziente e del nucleo familiare: possono esserci momenti in cui i ragazzi riescono a tenere la psicoterapia individuale e l’intervento educativo ma non sono in grado di stare nella stessa stanza con i loro genitori, situazioni in cui non possono tollerare il confronto con l’altro da sé e dunque non sono nelle condizioni di partecipare al gruppo psico-educativo; possono esserci genitori che non riescono a essere presenti se non in formati e setting variabili e discontinui. Ogni situazione è unica e viene accolta nella sua specificità, seppure in tutti i casi con uno sguardo del team al completo e l’obiettivo di arrivare a poter tenere tutti i pezzi insieme. Forse questo ragazzo e i suoi genitori oggi non possono stare nella stessa stanza a parlarsi: la terapeuta familiare lavorerà con i genitori mentre io lavorerò con il ragazzo perché domani, magari insieme a me, possa iniziare a fare qualche minuto di seduta familiare insieme ai suoi genitori. Allo stesso modo nelle diverse situazioni si inizia a lavorare con ciò che c’è, ma tutti insieme, in modo da sostenere i ragazzi perché possano arrivare ad affrontare tutti i percorsi del viaggio che proponiamo. Credo che proprio qui stiano la forza e la solidità del contenitore: è rassicurante sapere che, comunque vada e in ogni modo i pazienti riescano o non riescano a esserci, il gruppo di lavoro c’è ed è solido, li tiene nella mente nella complessità dei loro vari aspetti. Alle volte questa consapevolezza è da sola talmente potente da poter prestare una forma ai nostri pazienti quando non sentono di averla. Ecco allora che i ragazzi, rassicurati dalla sensazione di un caldo e solito contenimento, possono aderire a un progetto molto impegnativo con una maturità e una serietà davvero encomiabili. E così, mentre noi li aiutiamo, loro ci aiutano a farlo.
Per venire alla mia esperienza all’interno di questo progetto, quando il Dr. Gianluca Marchesini mi ha contattato per farne parte mi sono emozionata in primo luogo perché l’ambulatorio è stato per me, diversi anni fa, il primo posto in cui ho fatto esperienza lavorativa, il luogo dove ho messo le basi per la costruzione della mia identità professionale e dove tanto ho imparato e poi perché ricordavo diversi pensieri condivisi proprio con lui rispetto all’avvio di un progetto simile, in cui entrambi crediamo molto. Presso l’Ambulatorio Adolescenti ho svolto il mio tirocinio dal 2012 al 2016 sotto la guida della Dr.ssa Patrizia Conti, che è stata una maestra importante e speciale. Posso davvero dire di avere imparato da lei moltissimo in un momento in cui sentivo di sapere poco e niente, ma più di ogni altra cosa ho imparato da lei ciò che è per me fondamentale per poter lavorare: la gestione dell’ansia, mia prima ancora che dei pazienti, e delle urgenze o presunte tali. Dal 2013 al 2016 ho lavorato come educatrice presso la Comunità Terapeutica per Adolescenti “I Delfini”, collocata al piano superiore rispetto all’Ambulatorio Adolescenti e che allora era anch’essa gestita dalla Dr.ssa Conti. In comunità ho costruito un altro pezzetto della mia identità professionale e personale: ho vissuto la patologia psichiatrica nel quotidiano e lavorato con fatica, passione e tante (a volte forse troppe) emozioni. Il lavoro in comunità e il confronto con ragazze estremamente sofferenti mi hanno consentito di avere una comprensione più ampia dell’équipe di lavoro, dell’orientamento teorico e clinico del Servizio e in modo particolare della patologia psichiatrica in adolescenza che, quando vissuta nel quotidiano, diventa a mio avviso più affrontabile anche nel setting clinico psicoterapico. Dopo la fine del tirocinio, ho continuato a collaborare con l’Ambulatorio fino al dicembre del 2018 come borsista di ricerca per l’ASST Niguarda nell’ambito di un Progetto Europeo, MILESTONE (Managing the link and strengthening transition from child to adult mental healthcare), che si occupava di studiare una nuova modalità di transizione dei ragazzi dalla Neuropsichiatria Infantile ai servizi di psichiatria per adulti. Gianluca Marchesini è un collega di cui ho una grande stima, che mi ha affiancato in tutti questi contesti e con cui ho condiviso in diverse forme il lavoro con adolescenti molto sofferenti, in ambulatorio e in comunità, da cui e con cui ho imparato molto. Questo mi ha aiutato nell’assumermi la responsabilità di lavorare al progetto, peraltro in un luogo che conosco cui sono molto affezionata. Oltre a ciò, mi ha facilitato l’idea di poter lavorare insieme alla Dr.ssa Candida Scatà, terapeuta familiare all’interno del progetto, collega dagli albori della mia attività professionale con cui ho condiviso tante e diverse esperienze lavorative in differenti contesti e con cui ho una sintonia rara e preziosa, frutto di anni di confronti, condivisioni, incontri, scontri e pensieri condivisi. Quando lavoro con pazienti le cui famiglie sono seguite da lei, sento di avere “le spalle coperte”: so di essere più libera di muovermi all’interno dello spazio costruito tra i ragazzi e me perché c’è qualcun altro che, in coerenza con il lavoro che faccio io, si occupa della gestione di quanto c’è intorno. Questo è davvero importante nel lavoro con gli adolescenti con forte malessere psichico, i cui genitori hanno naturalmente bisogno di un contenimento e di uno spazio che possa aiutarli a fare pensiero rispetto e con i loro figli. Mi rendo conto che il lavoro del terapeuta familiare sia fondamentale in queste situazioni anche perché consente al terapeuta individuale di costruire e muoversi agevolmente nello spazio della terapia con il ragazzo, cosa molto più complessa quando le famiglie non sono seguite con un approccio sistemico: il rischio, in questi casi, è che il sacrosanto bisogno dei genitori occupi eccessivamente lo spazio del ragazzo, quello in cui lui ha bisogno di iniziare timidamente a muovere i suoi passi in autonomia. Ecco, credo che queste premesse diano conto di come e perché io mi sia sentita abbastanza solida per tenere il peso del dolore di ragazzi così sofferenti come quelli che incontriamo a SafeTEEN, di poter essere per loro come le bianche scogliere di Dover nel mare in tempesta, per usare una metafora che mi è molto cara.
Quando il progetto è iniziato conoscevo anche la neuropsichiatra infantile, Dr.ssa Margherita Contri, pur non avendo avuto modo di lavorare molto con lei, che è arrivata in ambulatorio nel 2017, proprio poco prima che io me ne andassi. Conoscevo tuttavia molto bene l’eredità che ha raccolto e la complessità del lavoro che svolge, cosa che ho visto confermata nel corso di questi mesi in cui ho iniziato a conoscerla meglio e a stimare profondamente il suo lavoro. Non conoscevo invece la TeRP, Dr.ssa Desirée Pagella, con cui sto imparando a costruire un legame di intesa e condivisione che mi fa sentire molto sicura: so che lei mi aggiorna rispetto alle evoluzioni del suo lavoro con i ragazzi, alle sue intuizioni e proposte, e che è capace di un ascolto molto attento quando mi chiede un parere rispetto ad alcuni aspetti clinici. È interessante osservare, nel confronto tra noi, come molte volte i ragazzi portino a lei e a me facce e aspetti diversi che possono sembrare apparentemente inconciliabili ma che rappresentano invece la poliedricità delle loro ambivalenze e complessità, riflettendo i nostri differenti ruoli e modalità di porci nei loro confronti. Insieme alla Dr.ssa Valentina Alajmo, psicoterapeuta gruppale, Desirée Pagella conduce un gruppo psico-educativo con alcuni dei ragazzi del progetto, che li aiuta a condividere esperienze e confrontarsi con l’altro nella ricerca di una nuova possibilità di espressione di sé. Gli incontri di gruppo si stanno sempre più configurando come un contesto in cui la condivisione delle esperienze dei ragazzi, dei loro commenti o delle loro idee, così come dei silenzi ed esitazioni, diventa un contenitore prezioso di emozioni o possibili agiti e può gradualmente agevolare la formazione di uno spazio di pensiero. Uno spazio mentale e relazionale che si costruisce a poco a poco tra i partecipanti, possibile deposito di stati emozionali troppo angoscianti se vissuti in solitudine. All’interno del nostro progetto la dimensione gruppale diventa così un elemento efficace per intercettare e prevenire agiti o emergenze cliniche.
Una grande sfida per lo psicoterapeuta individuale a orientamento psicodinamico all’interno di un lavoro come questo è a mio avviso quella di tenere e proteggere tutte le caratteristiche di questo complesso impianto gruppale pur mantenendo un assetto mentale fermo nei fondamentali aspetti psicoanalitici del lavoro con l’adolescente. Così come la strutturazione dei vari interventi all’interno del progetto, caratteristica peculiare della psicoterapia dell’adolescente è proprio quella di garantire sì un setting solido, ma che sia al contempo flessibile e adattabile alle varie possibilità, alle risorse, alle richieste e alle capacità riflessive e comunicative dei ragazzi. Credo che uno dei ruoli più importanti del terapeuta dell’adolescente sia proprio quello di essere capace di muoversi tra le manifestazioni diversificate delle varie fasi che il ragazzo attraversa e di adattarsi al paziente con le modalità comunicative possibili: associando, narrando anche di sé e del proprio investimento affettivo, ascoltando canzoni, guardando fotografie, disegnando, scrivendo messaggi, facendo videochiamate o talora non dicendo alcunché, accettando dunque le variazioni e la flessibilità del setting di cui parlavo sopra. Attraverso l’ascolto solido e flessibile dunque, la psicoterapia psicoanalitica accompagna l’adolescente a esplorare, significare e superare i blocchi relativi ai vari compiti evolutivi, nonché a scoprire e trasformare le matrici e gli ostacoli del suo mondo interno al fine di sostenerlo nella costruzione identitaria. L’adolescente si trova per definizione sospeso tra il non più e il non ancora, in un contesto in cui deve affrontare diversi compiti impegnativi: separarsi dai genitori dell’infanzia, mentalizzare i cambiamenti del corpo che diventa adulto, costruire e conoscere il suo ruolo sociale, definire i propri valori. E’ evidente che quando la sofferenza psichica è troppo forte e insostenibile, questi compiti non possano essere assolti e il ragazzo abbia bisogno di essere accompagnato in un cammino che possa metterlo nelle condizioni di tornare ad affrontarli.
Dico spesso ai ragazzi che seguo che mi piace immaginare il lavoro con loro come un viaggio con due caratteristiche particolari: iniziamo a viaggiare senza sapere esattamente dove arriveremo, ma abbiamo la garanzia che viaggeremo insieme. Che io potrò tenere loro la mano mentre attraverseremo le grotte più buie ma soprattutto reggere la torcia quando loro non avranno la possibilità di farlo; che potrò scendere nei pozzi neri insieme a loro ma che potranno essere contemporaneamente tranquilli rispetto al fatto che sarò in grado di tornare in superficie. Credo che una delle caratteristiche maggiormente terapeutiche nel lavoro con gli adolescenti sia la consapevolezza che il terapeuta capisce, segue, si preoccupa, ma può reggere gli scossoni ammettendo anche la propria umanità e verbalizzando il vissuto affettivo. La costruzione di una relazione di fiducia tra terapeuta e paziente è forse l’aspetto più complesso, faticoso e potentemente trasformativo della psicoterapia individuale con i ragazzi molto sofferenti. D’altra parte, come dice bene Ivano Fossati nella sua splendida canzone, “la costruzione di un amore spezza le vene delle mani e mescola il sangue con il sudore”. Non credo si possa spiegare meglio di così.
Alla luce di quanto scritto finora, sento di poter dire che una psicoterapia individuale con una significazione psicodinamica sia non solo possibile, ma anche utile e trasformativa per queste vite così frammentate proprio in un luogo relazionale, contenitivo e gruppale come quello che stiamo configurando all’interno del progetto SafeTEEN. In questo senso, quando lavoro con i pazienti del progetto so bene quanto siano necessarie tutte le altre figure professionali per fare da garanti alla costruzione di una sempre maggiore intimità tra i ragazzi e me.
Per tornare alla domanda iniziale, io stessa mi trovo a volte a chiedermi come sia possibile che mi senta meno affaticata nel lavoro con questi adolescenti così sofferenti piuttosto che in altri contesti, magari apparentemente meno impegnativi dal punto di vista clinico. Credo in primo luogo che questo lavoro abbia un grande senso e mi emoziona poter aiutare i ragazzi a sostenere lo zaino di mattoni che portano sulle spalle mentre sono impegnati ad affrontare le sfide di questa delicata fase della vita. Mi piace ascoltarli, mi incuriosisce scoprire le cose nuove che sono in grado di insegnarmi, siano esse pensieri, sguardi sul mondo, canzoni, sogni, paure. Mi piace soprattutto vedere come si illuminano quando scoprono che questa mia curiosità è autentica, che se mi parlano di una canzone per loro importante io chiedo loro di farmela ascoltare: leggo lo stupore e l’emozione nei loro occhi, segno della speranza che un ponte con il mondo adulto, allora, è forse possibile e lo potranno attraversare senza tradire ciò che sono oggi. Nello scrivere questo penso in particolare a Enrico, adolescente brillante inserito nel nostro progetto a seguito di un grave breakdown depressivo. Ritirato e senza speranze, Enrico ha abbandonato tutte le attività della sua vita: scuola, sport, musica, relazioni sociali, relazioni sentimentali. Non dialoga più con il mondo e in particolare non parla con gli adulti, dei quali non incrocia nemmeno lo sguardo. Arriva in ambulatorio con un cappellino che non toglie mai mentre guarda in basso e mostra a chi sta di fronte a lui solo la visiera del cappello. Risponde a monosillabi, con un filo di voce e dichiara di aver accettato l’inserimento nel progetto solo perché, dopo un accesso in Pronto Soccorso, gli è stata prospettata come alternativa l’inserimento in una struttura residenziale. Il mio ascolto si accende quando, sempre con un filo di voce, mi racconta di aver continuato a scrivere musica anche dopo la dolorosa interruzione degli studi in conservatorio, studi che, caso vuole, condivido con lui nella mia storia personale e la cui complessità conosco bene. Gli chiedo se se la senta di farmi sentire una delle sue canzoni e istantaneamente, in un momento speciale che trovo simbolico ed emozionante, Enrico alza per la prima volta la testa. Ora non vedo più solo la visiera del suo cappello e lui mi regala il suo primo sguardo, che porta in sé la luce dello stupore e della gratitudine. Da questo momento in poi, attraverso e grazie all’ascolto delle sue canzoni, Enrico riesce ad avvicinarmi alla sua esperienza emotiva, dà un nome a ciò che da anni prova e scopre il vero senso del suo essere in questo percorso terapeutico.
Mi piace infine e non da ultimo pensare che non sono sola, così come spesso dico ai ragazzi che seguo. Immagino di poter trainare il carro insieme a loro solo perché ci sono tanti colleghi intorno che ci aiutano a farlo liberando il cammino e restituendoci uno sguardo, necessario, carico di fiducia. Siamo tutti pezzi di un puzzle complesso e caleidoscopico, tanto difficile da comporre quanto gratificante nel momento in cui, arrivati in fondo, i colleghi e io, con i ragazzi e le famiglie, possiamo fare un passo indietro e guardarlo nella sua interezza.